Parlando
Def: ‘PARLANDO prescrizione usata nella musica strumentale per ottenere dall’interprete uno stile esecutivo caratterizzato da grande libertà ritmica e di fraseggio, simile al recitativo vocale.’
Per il festival 2022, siamo stati felici di introdurre Parlando, una nuova attività letteraria degli Incontri che andrà ad arricchire l’ormai ben conosciuto programma musicale. Ogni anno inviteremo uno scrittore a soggiornare da noi durante il festival. Potrà vedere i concerti, discutere con i musicisti, interagire col pubblico, partecipare agli eventi Oltre la Musica, e in generale contribuire all’atmosfera degli Incontri. I testi degli scrittori durante loro soggiorno contribuiranno alla vita letteraria di questo paesaggio storico, già reso noto dalle opere di Iris Origo.
Ogni autore verrà invitato a produrre un testo per Parlando che sia articolo, diario, saggio, poesia, commentario o qualsiasi altro contributo: unica richiesta, che venga ispirato dalla musica. Il testo verrà pubblicato sul sito web Parlando e in versione cartacea l’anno seguente, contribuendo così a una nuova antologia degli Incontri.
Siamo stati molto onorati di aver presentato il noto scrittore Louis de Bernières come il primo Parlando “author-in-residence” durante la nostra stagione 2022.

James Runcie, Scrittore in Residenza 2025
James Runcie è autore di dodici romanzi, quattro opere teatrali e un’autobiografia. Ha ricevuto diversi premi in qualità regista per documentari, drammaturgo e curatore letterario. È stato Direttore Artistico del Bath Literature Festival, Head of Literature and the Spoken Word al Southbank Centre di Londra e Commissioning Editor for Arts su BBC Radio 4. È membro della Royal Society of Literature e anche membro della Crime Writer’s Association e del Detection Club.
Nato a Cambridge, James è figlio di Robert e Lindy Runcie. Robert Runcie era un ecclesiastico che ha servito come arcivescovo di Canterbury dal 1980 al 1991. La sua prima esperienza come prete rurale ha ispirato James a scrivere The Grantchester Mysteriesuna serie di sei romanzi polizieschi con protagonista il detective ecclesiastico Sidney Chambers. Dai romanzi ne è stata tratta una una serie televisiva internazionale con protagonisti James Norton, Robson Green e Tom Brittney. Lindy Runcie era una pianista illustre e il suo amore per la musica, in particolare quella di J. S. Bach, ispirò James a scrivere il suo romanzo The Great Passion sulla composizione della Passione secondo Matteo.
James è stato sposato con la regista teatrale Marilyn Imrie per trentacinque anni con la quale ha avuto due figli: Charlotte, che è anche una scrittrice, e Rosie, che lavora per il National Theatre of Scotland. Marilyn è venuta a mancare nell’ agosto 2020 e il racconto di James sul loro matrimonio Tell Me Good Things è stato pubblicato nel 2021. Ora vive con la sua compagna, Lucinda Bredin, a Londra e in Scozia.
Joseph O'Connor, 2024

I libri di Joseph O’Connor sono stati tradotti in 40 lingue. In Italia, il suo editore è Ugo Guanda, da molti anni. Star of the Sea , romanzo che ha venduto più di un milione di copie, è stato acclamato come romanzo letterario dell’anno in Inghilterra. Shadowplay ha guadagnato diversi premi letterari in Irlanda e in Inghilterra.
Altri suoi libri comprendono Cowboys and Indians (Whitbread Prize), Desperadoes, The Salesman, Inishowen, Redemption Falls, Ghost Light (Dublin One City One Book 2011), The Thrill of it Alldue collezioni di racconti, diversi testi per teatro e cinema, e sei volumi di saggi letterari. The Drivetime Diariesraggiunse il primo posto nelle classifiche irlandesi. O’Connor ha recitato spesso alla radio e in teatri internazionali, come la Royal Albert Hall e il Barbican a Londra, il Centre Pompidou a Parigi e il Lincoln Center a New York.
Alcuni premi ottenuti dalle sue opere: Prix Zepter for European Novel of the Year, Prix Millepages in Francia, Premio Acerbi in Italia, American Library Association Award, Nielsen Bookscan Golden Book Award, Time Out magazine award, Irish Post award for fiction, Sunday Tribune Hennessy Hall of Fame Award, il 2022 American Ireland Funds AWB Vincent Literary Award, la Brian Stoker Gold Medal for Cultural Achievement e un dottorato della National University of Ireland.
L’ultimo suo romanzo, My Father’s House, è uscito nel gennaio 2023 con Penguin Random House; la traduzione italiana La Casa di Mio Padre è stata pubblicata nel febbraio del 2024 da Guanda. Da poco è uscito anche il secondo volume di questa trilogia romana, The Ghosts of Rome, mentre il terzo apparirà nel 2027. The Ghosts of Rome, a sequel to My Father’s House. A third volume of his projected Rome trilogy will follow in 2027.
Quintetto
Per Antonio Lysy
I
Again.
Spirals of clay dust.
Sunflowers and thyme
By the strade bianche.
Sun-warmed wine.
Pizzicato and swallow-song,
Music and word.
Major arpeggio.
Minor third.
The birds whistle harmony
Over the cortile
As a deer in the forest
Stares up from the grass.
The music drifts out where it will.
Through the tunnels under Chiusi.
The spas of Chianciano.
The back lanes of Montepulciano.
The fields of La Foce.
Quavering solo,
Counterpoint and fugue
As Bach brings us homeward
By the zig-zag road.
II
First light on the vast amphitheatre
that is Val d’Orcia.
Silhouette of twin-belled turret
Of the castle so ancient
that no one remembers its purpose
If ever it was known.
The audience of birds start to chirrup and whistle
As the sun comes up like a russet-haired soloist.
A ladle thumps a milk bucket.
Begin.
Belvedere Grande.
Belvedere Piccolo.
The five-bar gate like a sheet of manuscript
waiting to be written.
Strings of moving lilies.
Brass of blowsy heat.
Bells, and a chime tree of tremulous breeze
Moves a cloud whose shade drifts upward, sailing
Out like an aria across the valley.
Woodwind as the heat oboes gently through the forest,
Through the arches of an aqueduct,
Built long ago.
Old ghosts on the battlements
Conducting the wheatfields
For everything longs to be music.
Little wonder
We say ‘air’ as one word for a melody.
Music, our breathing,
Our filling of the immensity.
The language in which God speaks.
III
Even the placenames sing.
Castiglione d’Orcia.
Montalcino.
Pienza.
San Quirico d’Orcia.
Bagno Vignoni.
Radicofani.
Castiglioncello del Trinoro.
Montefollonico.
The roadmap, a score for a string quintet.
The milestones, a procession of solos.
IV
Born ten thousand years ago
And born this living second,
From the clay hills I sprang,
Trickled up from the rocks
Through the silt stones and loam,
My home was the meadows.
Wheatfields my pillow,
My mother, the earth.
I chuckle. I gurgle.
I flirt with the rushes.
Through the groves rich with olives
In the velvet dark,
By the terraced gardens of dappled poplars
I kiss the foot
Of the sleeping volcano.
Under bridges,
By culverts.
Between high, handsome quaysides.
To the sea I run.
From the clay hills I came,
By the slopes
And the curves of Monticchiello,
I rise
To serenade them.
Orcia, my name.
V
No voice as achingly eloquent
As the solo cello.
Molasses and umber.
Burring.
Purring.
Velvet-toned mocha,
The weep of touched strings.
In the smoke from the wick of a blown-out candle,
The musician becomes his own music.
Animato
Con brio
Grandioso
Giojoso
Grazioso
Liberemente
Perdendosi
Doloroso.
Melody is a map
Made by silence and sound,
By the air and the body
In conjunctions of time
But even when the body that housed it is stilled,
Music subsists,
Echoes onward,
Resounds.
Dew in a garden.
The aroma of pine.
Bashful-faced lemons in terracotta pots.
Fireflies flitting.
Sun-warmed wine.
The faces of the musician’s children,
On a stage at La Foce
The world is reborn.
Mountaintops redden
In solos of dawn.
Dust on the roadways.
Miracles of rain.
Absence becomes presence
again.
Alessandro Vanoli, 2023

"Faccio lo storico e faccio lo scrittore. Queste due cose non stanno necessariamente assieme. Ma per me è andata così.
C’è una prima pare della mia vita, piuttosto rigorosa e accademica: laurea a Bologna in Storia della Filosofia medievale; dottorato a Venezia in Storia Sociale europea. E poi per quasi dieci anni l’insegnamento, sempre a Bologna, di politica comparata del Mediterraneo; e in mezzo un sacco di collaborazioni con altre università in giro per il mondo: Tunisi, Salamanca, Granada, Buenos Aires, Città del Messico, State College (Pennsylvania), New York, Amsterdam.
Devo a quegli anni e a quei viaggi una bella fetta delle cose che ho studiato: il mondo mediterraneo, la storia dell’islam in Spagna e Sicilia, le esplorazioni dell’Atlantico."
Interludio estivo nella Val d’Orcia
Primo movimento
Prima di arrivare alla chiesa c’è una panchina. Devi salire qualche metro, alla sinistra del sentiero, su un prato d’erba un po’ scosceso. E solo quando sei in cima ti accorgi di quell’infinito che ti si para davanti: con lo sguardo che si perde in un ondeggiare di campi verdi, ritmati dalle macchie più scure d’alberi, sino alle colline lontanissime perse nei toni azzurri dell’orizzonte.
Ti siedi e consideri un momento la situazione: è un pomeriggio tardi, di pieno luglio, e fa parecchio caldo – c’è un po’ di brezza questo sì – e l’odore dell’erba e dei fiori tutt’attorno; stai guardando verso sud-est, dunque le pietre e le torri che intravedi chissà quanti chilometri davanti a te sono quelle di Montepulciano. Insomma, se vai diritto da quella parte, poi giri a destra, verso ovest, vai in Val d’Orcia. Partiamo da qui.
C’è una geologia innanzi tutto. Le terre da queste parti, nel mezzo della Toscana, sono antiche ma non antichissime: soltanto qualche milione d’anni fa; cose del Pliocene, quando il mare che qui copriva tutto ha cominciato a sollevarsi. E salendo verso il cielo ha portato con sé conchiglie, fossili di pesce e argille ovunque, quelle che chiamano “crete”. Una terra poco permeabile all’acqua e povera d’aria. Una terra che si spacca quando arriva il caldo e che diventa paludosa quando piove troppo. Una terra però che sui rilievi va bene per i pascoli, ma anche per la vite e per l’olivo. In più se la guardi dall’alto questa zona, magari aiutandoti con google map, lo capisci abbastanza facilmente che questa è una zona di passaggio: una serie di valli che si protendono da una parte verso l’Umbria, dall’altra verso il Lazio, collegando il tutto con il mar Tirreno. Cibo, acqua, e facili collegamenti: inutile dire che queste terre finirono per accogliere secoli, se non millenni, di civiltà diverse. Gli etruschi innanzi tutto; e poi i romani, poi nel primo medioevo un fitto andirivieni di mercanti e pellegrini, perché le grandi strade del passato erano ormai scomparse e se volevi scendere a sud, verso Viterbo, e di qui poi a Roma, era da qui che dovevi passare. Che non è strano insomma che fu allora che la Val d’Orcia e le terre attorno cominciarono a riempirsi di torri di castelli, di fortezze e monasteri.
Anche il posto dove sei seduto ora, Montefollonico, è venuto su in quel periodo: le mura ce le hai proprio a qualche metro di distanza, dietro le tue spalle. Uno dei tanti borghi cresciuti attorno al Mille e poi diventati solidi e forti a poco a poco. Uno di quei luoghi dove i turisti pensano che il tempo non sia mai passato e che la vita scorra sempre serena, tra le pietre vive delle case, i fiori che colmano i terrazzi e l’odore della legna arsa nei camini. Uno di quei luoghi che, in Toscana come altrove, ci siamo inventati in realtà in tempi recenti.
Ma adesso è l’ora del tramonto e occorre scendere. Solo qualche ripido metro in basso. Sino alla chiesetta qui accanto. La facciata bianca ornata di mattoni ai lati; meno antica di gran parte del resto di Montefollonico e si vede: una cosa dei primi anni del Seicento. Chiesa della Madonna del Triano… che mentre scendi pensi che è davvero uno strano nome; lo prenderà dalla porta medievale qui a fianco, che si chiama appunto Porta del Triano, certo… anche se poi è solo spostare il problema dell’etimologia un po’ più in là…
In ogni caso dentro la chiesa non è così fresco come ti aspettavi, ma ci stai comodo. La navata si riempie a poco a poco, ed è curioso come in quel piccolo angolo di Toscana risuonino quasi solo accenti inglesi. A te la mescolanza interessa da sempre: come storico trovi che la mescolanza e lo scambio spieghino quasi sempre meglio la realtà, rispetto all’immagine di un passato e di un presente statico, dove si vorrebbe la popolazione legata indissolubilmente ad un solo territorio. Così ti siedi, cullato da quel vociare un po’ cosmopolita, godendoti l’aria che adesso passa dalla porta aperta accanto a te… seduto accanto a Marcella e Margaret, Ravenna e Belfast… la mescolanza per l’appunto.
Che poi, a sfogliare il programma di sala ti vien da pensare quasi la stessa cosa: Mozart, Prokofiev, Albéniz, Asturias, Tárrega, Boccherini… che se non è mescolanza questa! In realtà sono i due poli del programma quelli che noti di più. Innanzi tutto Mozart con la sonata per violino e pianoforte, KV 454. Normalmente le sonate per violino e pianoforte di periodo neoclassico te le confondi un po’ l’una con l’altra, ma questa si lega a un fatto che ti colpì abbastanza quando lo leggesti: è dedicata ad una violinista, l’italiana Regina Strinasacchi, di cui si dicevano cose strepitose. Mozart questo concerto lo suonò per la prima volta con lei, davanti all’imperatore Giuseppe II, era il 29 aprile 1789. E lo senti sin dalle prime note: quell’equilibrio tra i due strumenti, che nelle sonate non è per nulla scontato; sin dal Largo introduttivo, con ogni frase esposta da uno strumento che subito viene ripresa dall’altro. Poi chiaro: Mozart non replica mai davvero e tutto si trasforma in melismi, contrappunti e ornamentazioni le più varie, con quegli accenni quasi operistici che introduce nell’allegretto finale. Mescolanza appunto: in fondo è proprio ai tempi di Haydn e Mozart che la musica cominciò a sperimentare veramente il dialogo tra le differenti voci dell’organico. E la senti benissimo qui quella conversazione che li strumenti e i musicisti mettono in opera. Una conversazione dove tutti sono su un piano di parità.
E Mozart vabbè, non si discute, ma in questo gioco per te è sempre stato Boccherini a fare la differenza. Forse proprio perché sei uno storico e non un musicista. Il periodo è più o meno lo stesso, la fine del Settecento, ma le suggestioni, le influenze, sono estremamente diverse. A quei tempi capitava spesso di passare l’intera vita in viaggio e Boccherini, come tanti musicisti, non fu da meno: nato a Lucca e giovane prodigio del violoncello, se ne andò in giro un po’ ovunque, tra Italia, Austria e Francia. Finì poi che si fermò in Spagna, legandosi poi all’infante don Luis. Nel 1776 lo seguì a Las Arenas de San Pedro, un paesino a sud della provincia di Avila. E si potrebbe pensare che il mondo scintillante dell’Europa dei lumi fosse ormai immensamente distante. E invece all’ombra di quel palazzo spagnolo c’erano artisti non da poco, se è vero che Boccherini è lì, elegante in una marsina rossa, immortalato per sempre da Francisco Goya, in quel suo capolavoro che celebra appunto la famiglia dell’Infante Don Luis di Borbone.
E quello che lui si inventa a corte sono dei quintetti: prende il quartetto d’archi classico, con due violini, viola e violoncello, ma ci aggiunge la chitarra. Una scelta a dir poco originale per i tempi (anzi la inventa proprio lui), ma che lì in Spagna ha un senso: non è ancora lo strumento come lo conosciamo – e arriverà nell’Ottocento – ma è già quella chitarra che esprime ormai da tempo la tradizione più profonda, quella arabo-islamica e quella gitana: scale e i ritmi di mondi lontani che in Spagna si mescolano da secoli. E Boccherini nei suoi quintetti scombina ancor più le carte: c’è la musica cameristica europea, dove gli strumenti si trovano ora ormai in dialogo, tutti sullo stesso piano di importanza, e ci sono quei suoni che vengono da lontano.
Questo, il numero 4, ti piace particolarmente. Boccherini lo ha riarrangiato così molto tardi, basandosi su due sue opere precedenti; ma non è questo che importa. c’è un Allegro maestoso con quelle melodie vivaci affidate al violoncello; c’è un secondo movimento, Pastorale dove gli archi in sordina suonano una melodia delicata e dolce, increspata delle note di chitarra; e c’è soprattutto quel fandango finale, dove il ritmo della danza spagnola si ripete continuamente mentre gli strumenti si scambiano la melodia, in un crescendo di vera festa. E tu lo capisci solo adesso guardando i musicisti mentre giocano in quel crescendo, che Boccherini ha costruito quel pezzo come fosse una vera e propria chiamata a festa per i partecipanti: ha senso, ti dici, che il violoncello cominci a ballare alzandosi in piedi, che la chitarra la viola e i due violini ridano mentre si precipitano in un finale di ritmo e di danza.
E anche tu sei lì che ridi e tieni il tempo con le mani. Come tutti attorno a te. Perché è questo, al suo meglio, il senso della musica. La mescolanza appunto.
Secondo movimento
Se non fosse estate sarebbe diverso, ti dici. È vero per tantissimi motivi. Perché mangiamo assieme brindando all’ombra degli alberi, perché camminiamo per la campagna sotto il sole, perché quando ti svegli c’è una lepre che sembra passare di lì per salutarti; e poi perché ci sono le cicale.
La Foce è un luogo affascinante per chiunque, per uno storico forse un po’ di più: perso in uno spazio da sogno, al centro steso della Val d’Orcia, ti obbliga quasi a pensare al passato. Non come banale nostalgia ma come vera stratificazione. Mondi e mondi che si sovrappongono per costruire questa meraviglia.
Quindi stai camminando all’ombra dei cipressi che punteggiano la strada, e ti guardi attorno provando a immaginare gli strati di questa lunga storia. Tanto per cominciare sai che gli storici tendono a credere che nel periodo medievale qui furono quasi solo boschi. In realtà fu così per tutta la Toscana, ma in Val d’Orcia le trasformazioni successive furono abbastanza impressionanti. Il disboscamento fu veloce: bastò qualche secolo di scorrerie militari, di incuria nella manutenzione idrica e di pastorizia intensiva – pecore soprattutto, ma anche mucche – per impoverire e inselvatichire il terreno, che diventò un agglomerato confuso di calanchi e biancane, coperto da una vegetazione di soli arbusti. Tra il Sette e l’Ottocento qui tutto aveva i tratti grigi della morte: di un paesaggio lunare e spoglio. Una valle spoglia anche se comunque frequentata, perché era questa la zona di transito interno tra Firenze e Roma. Così, buona parte di tutti quegli Europei da ‘‘grand tour’’ che venivano in Italia alla ricerca dell’avventura, di una formazione completa o delle proprie radici, dovevano quasi inevitabilmente passare per questa valle desolata e deserta.
Difficile da immaginare che il luogo che oggi è l’immagine stessa della Toscana da cartolina, avesse simili tratti spettrali. Eppure è questa l’idea che trovi maggiormente interessante: l’idea che un giorno un paesaggio abbia potuto essere inventato, e con esso una concezione nuova di quei territori e del loro significato politico e sociale.
Sì perché un paesaggio non è mai solo una questione estetica: ti dice come vedi il mondo e, talvolta, pure come lo desideri. E tra sette e ottocento, l’idea di paesaggio si trasformò: accadde sulla spinta dello sguardo dei tanti viaggiatori del Gran Tour, sulla scorta del nuovo sguardo scientifico e oggettivo verso la natura, sulle impressioni di pittori e di scrittori che da un lato ricercavano la natura del mondo antico e dall’altro riproducevano ogni cosa con uno sguardo sempre più oggettivo. Così ti viene da pensare seriamente che bisognerebbe scriverla una storia di come dal nord Europa non solo giunse l’idea del pittoresco (quella è già stata abbondantemente studiata), ma di come a un certo punto si cominciò a idealizzare il sud, secondo una precisa (e inventata) idea di natura; e idealizzandolo si cominciò a narrarlo e a trasformarlo concretamente per farlo coincidere con i propri sogni. È in parte questa la storia di come tra Otto e Novecento furono inventati i luoghi di vacanza, tanto montani quanto marittimi, e di come in certi casi furono inventati e ricostruiti i paesaggi di territori interi. Come la Toscana per l’appunto.
Così questa sera sei nuovamente seduto ad ascoltare musica e ti sembra che tutto sia in tema con i tuoi pensieri. Perchè le grandi aspirazioni ottocentesche, quel bisogno di forzare la natura che fu anche soprattutto bisogno di dare un senso nuovo alla storia e alla politica, si capisce bene solo se si passa anche dalla musica. In fondo il romanticismo al suo meglio fu proprio questo: dissoluzione delle forme classiche precedenti e affermazione di una fantasia creatrice. Ed è al nord che lo si sente al meglio tutto questo. Lo scrisse perfettamente Kurt Tucholsky, un autore satirico tedesco di inizio Novecento: “A causa dell’inclemenza del tempo, la rivoluzione tedesca ebbe luogo in musica.” E spesso, quando ascolti la Terza sinfonia di Beethoven, ti torna in mente: dall’alto di quelle note è evidente che Tucholsky avesse ragione. Si era ai primissimi anni dell’Ottocento e Beethoven, giunto alla sua terza sinfonia, fece davvero la rivoluzione. Ad ascoltare certa sua musica precedente, per piano o da camera, si capisce che ci stava arrivando, come se vi fossero già forze immani che premevano per uscire e scatenarsi. Ma fu solo in quel momento che si decise, o riuscì, a far saltare gli schemi e l’armonia formale e stilistica. Difficile immaginare che effetto poté suscitare nei primi ascoltatori quella violenza sonora, loro che erano ancora abituati a sentir suonare per intero una linea melodica da un singolo strumento o da un gruppo tutto all’unisono. Sconvolgente è probabilmente la parola giusta. E Beethoven è all’inizio di una parabola a dir poco ricca.
Questa sera sei seduto all’aperto sotto un grande albero che ci protegge tutti dagli ultimi raggi di sole ancora caldo a quest’ora di tardo pomeriggio. La corte di case di mattoni tutt’attorno e il palco lì davanti a noi. Programma in tema con i tuoi pensieri: a parte un sempre doveroso Bach iniziale, il resto risuona delle note di Schubert e Schumann. Due modi parecchio diversi di essere romantici: il primo intimo e malinconico, il secondo irruento e tumultuoso. A te piace Schumann.
In particolare questa sera è il Quintetto con pianoforte in mi bemolle op. 44: una di quelle cose che gli innamorati di musica classica conoscono a menadito, pieno com’è di invenzioni musicali straordinarie. Robert Schumann lo compose nel 1842, dedicandolo alla moglie Clara, la strepitosa musicista che con i suoi concerti avrebbe segnato quell’epoca musicale. È il romanticismo al suo massimo grado in un susseguirsi di slanci improvvisi e di ripiegamenti dolcissimi. Quel tipo di musica dove il silenzio conta tanto quanto le note. Beh, adesso sei qui ed è tutto perfetto… se non fosse per le cicale: Schumann non lo hai mai ascoltato assieme all’accompagnamento delle cicale. Ed è strano: talvolta ne sei infastidito, a volte riesci a dimenticarle, a volte persino ti pare che siano intonate e a tempo. Poi, al terzo movimento, uno scherzo “Molto vivace”, succede qualcosa: le cicale improvvisamente… tacciono! Ed è un po’ come quando si spegne la luce in montagna e ti appaiono d’improvviso le stelle: ogni nota ha cominciato a brillare e a suonare come non aveva mai fatto nella tua testa. E tu ti dici che non sarai mai sufficientemente grato alle cicale e ai tuoi amici musicisti per quel momento di assoluta bellezza.
Terzo Movimento
È stata una donna a volerlo. Si chiamava Iris Margaret Origo ed era nata nel 1902 da un ricco filantropo americano e dall’erede di un Pari d’Irlanda. Così andò che a viaggire cominciò sin da bambina: Inghilterra, Irlanda, Stati Uniti e Italia. Sia chiaro non cose da poco: la madre acquistò Villa Medici a Fiesole, una delle più spettacolari ville fiorentine e divenne amica di Bernard Berenson, che viveva non molto lontano, in località I Tatti. Ed è da qui che ti piacerebbe ragionare: da quel legame che unì tanti intellettuali europei, in particolare inglesi, all’Italia, in particolare alla Toscana, per ragionare di come agli inizi del Novecento si misero a investire nei loro sogni in modo così forte e deciso da costruirseli davvero. E così facendo crearono l’Italia idealizzata dai Gran Tour e dal pittoresco. Lo fece anche Iris, soprattutto dal momento in cui sposò Antonio Origo e assieme cercarono un luogo dove trasferirsi. Fu allora, era l’ottobre del 1923, che incontrarono la Val d’Orcia: “un altopiano nudo, spazzato dal vento”. Punto di partenza, la tenuta dove sei adesso, La Foce, una villa da rimettere tutta in sesto, così come l’intera azienda agricola: una tenuta di millequattrocento ettari e cinquantasette poderi. Che val la pena sottolinearlo perché è evidente da questa scala di grandezza che la Val d’Orcia così come la vedi l’hanno fatta loro. E ti dici ancora una volta che varrebbe davvero la pena prendere questa storia e allargarla un po’, giusto per ragionare meglio di come la costruzione del paesaggio italiano, delle vedute tipicamente “nazionali”, sia stata una storia globale (o almeno europea): una storia che per capirla e ricostruirla bene ha più senso andarsene in Inghilterra o cercare tra le carte dei pittori o dei ricchi collezionisti e mercanti europei. Ma soprattutto, pensi tra te, avrebbe pure ancor più senso in questi tempi di grande cambiamento aggiungere un tassello a questa storia ricordando come tutto questo non ebbe dei protagonisti solo maschi.
Che poi leggendo il programma troppo in fretta, avevi letto Schumann e avevi pensato Robert. Ovvio: anche tu non sfuggi alle facili generalizzazioni. Invece in mezzo, prima del Quintetto op. 44, c’era un pezzo di Clara non di Robert. Vedi? Ti dici? Funziona anche così la storia: cancella talvolta semplicemente anche solo dando per scontato.
E Clara non bisognerebbe proprio darla per scontata. Perchè Clara Josephine Wieck è stata forse la più grande pianista del suo tempo e pure una notevole compositrice. Poi certo ha sposato Robert e tute le volte che ti è capitato di leggere qualcosa di lei hai pensato come diamine abbia fatto a sposare quel giovane trasognato, squattrinato e malaticcio. Ma l’amore funziona così talvolta. Non smise mai di difendere il genio del marito anche davanti alle composizioni più ostiche e difficili per il pubblico. E forse dovette combattere non poco con le convenzioni che lei stessa aveva introiettato. Come quando scrisse, dopo la morte di Robert: “Una donna non deve desiderare di comporre; non ce n’è stata finora nessuna in grado di farlo. Debbo essere io la prima?” Una frase che sembra più un modo per convincersi. Così andò che per molto fu dimenticata. Tanto che ti senti pure in colpa adesso a leggere sul programma di questo brano e scoprire pure di non conoscerlo: romanza per violoncello solo…
Clara scrisse un solo concerto per pianoforte e orchestra, in La minore op. 7. Era il gennaio 1833, e lei aveva solo 13 anni: a quel tempo ne cavò un unico movimento; poi ampliò l’opera e aggiunse altri due movimenti. Lo terminò il 1° settembre 1835, dodici giorni prima del suo sedicesimo compleanno. Ci sono cose davvero notevoli in quella musica, soprattutto per quanto ti riguarda quel secondo movimento: una romanza che non ha niente a che vedere con gli usi orchestrali del periodo. Sì perché in quel momento di un concerto per piano, l’orchestra improvvisamente tace e rimangono da soli il piano e il violoncello; come se finalmente, in pace stessero lì a parlare assieme.
E il fatto che al violoncello stia suonando Antonio, che di Iris Origo è nipote, ti sembra dare più senso al tutto; e ti vien da pensare in quel momento, mentre il sole scende sull’orizzonte di una terra bellissima, che il volto migliore delle cose è proprio in quel dialogo continuo e leggero, che è mescolanza e trasformazione.
Louis de Bernières, 2022

Louis de Bernières was born in 1954, into a military family, and flown out to Jordan in a bomber. At the age of eight he was sent to Grenham House in Kent, a prep school run by two headmasters, one of them a paedophile and the other a sadist. He became fluent in Latin. Then he went to Bradfield College in Berkshire where he spent a lot of time fishing, and working for a local farmer when he was supposed to be doing sports. He then spent four months failing to become an army officer at Sandhurst, when what he really wanted to do was grow his hair long and play the guitar. In disgrace, he fled to Colombia where he worked as a tutor on a ranch belonging to an Englishman who also turned out to be a paedophile. He learned to ride western style, use a lasso, and round up cattle.
He came home and studied philosophy at Manchester University, financing it by working as a landscape gardener. Afterwards he worked variously as hospital porter, landscape gardener, mechanic in a bent Morris Minor garage in East London, philosophy tutor, carpenter, motorcycle messenger, and English and Drama teacher in Ipswich. He trained to be a teacher in Leicester, and won a masters with distinction at the Institute of Education in London. He worked with truants in Battersea until his third novel was published and he was earning the same by writing as he had been as a teacher.
He lives in Norfolk with his two children Robin and Sophie, and four cats, only one of whom was acquired on purpose. He accumulates clutter and has one craze after another, like Mr.Toad. His recurring crazes are writing, music, golf, cooking, falling in love, fishing, car mechanics, and gardening. His craze at time of writing is restoring antique rifles. He has been made patron of several charities, all of which have collapsed very soon afterwards. He has campaigned for the right of children to have proper relationships with both parents after separation. He has travelled all over the world at other peoples’ expense. For ten years he was with the Antonius Players, performing music and poetry, and writes and performs his own songs.
He has written every book he ever intended to write when he started out in the nineties, but probably has a few more left in him. He intends to write more poetry and become more grumpy, reactionary and unreasonable as he gets older. He hopes to meet his end by being shot through the heart by a jealous lover at the age of ninety six.
The festival waits for the cellist, the cello waits in its case, the writer questions himself, the valley thirsts for rain
The instruments are uncased, all but one.
A cello remains, alive but asleep, cool in the dark of the silent house.
It waits familiar fingers, the ones it has learned to obey, to lift it out, extend the spike,
Make it speak and sing.
An ancient servant passed from house to house,
The cello’s resigned to the long succession of hands.
It hears in the gardens cicadas rub their wings,
And knows it plays better than them.
In courtyard and field cicadas call,
Persistent, thoughtful, tired or loud,
They know without thought that what they seek is love.
This is what there is;
Noble houses, white roads,
A parched field, painted by heat in bronze and gold,
Fringed and framed by cypress trees;
An implacable sun,
A spent volcano like a maiden’s breast;
Musicians resting in the grateful shade.
But where is the cellist? Where are the birds?
Where do the animals drink?
What would be their thoughts, these famished trees, if trees should think?
How does the cricket elude us, even as it sings?
When we are children, why do we seek the cricket out?
And when we are grown, why have we given up?
When does the cricket sleep?
Does the cricket know when it mates
That song must be bequeathed?
This land was stone and clay, and fever, and marsh.
Once there were midwives wrenching the stones from clay,
And here is the land those hands bequeathed,
This land where music rings from stones,
Where once were partisans,
Where once the soldiers dreamed of home.
They’re all gone now, the ones
Who gathered sticks, and cleaned their guns,
And sang the fireside songs.
A clarinet plays in an inner room;
Outside, a thrush replies.
The strings are tuning up, their discord like a misspent youth
Before the laurels of age.
A cello speaks for the one that sleeps in its case,
The one that cannot speak for itself
Without the maestro’s hands.
We eat, we drink, we laugh,
But someone’s away
There’s someone who ought to be here,
(The presence of an absence
The absence of a presence)
Beneath our laughter, fear.
Hurrying past, compelled by the breeze, a butterfly.
Why do you sleep so much? the paper demands of the scribe.
‘You’re old,’ says the sun, ‘your music has slowed,
You save your allegros for when you need them most,
There’s rest, and rest, between your phrases now.’
I have never lived in a hurry,
Although compelled by the breeze, although Erato pins me down,
The oldest of my lovers, and of all my loves the last.
Wasps and cicadas drown in the pool; it’s better than dying of thirst.
Music is better than silence, silence is better than noise.
The wind is the breath of the world, the world is the lung of the wind,
The flute is the breath of the soul.
The wind enquires of the sun ‘Which of us two dries the walnuts more?’
The wind is empty-handed, the wind has nothing to bring.
It knows that the hillsides are eager for rain.
At dawn there is smoke in place of cloud,
At night the valleys are sleepless, awake for fear of flame.
And someone else is sleepless.
She’s restless at night, she’s mocked
By dreams of what she might have done,
She kicks her legs and groans. ‘I’ve wasted my life.
I prick your heart with tiny wounds. I don’t know why.
Someone should make me stop.’
I’ll be alright, he’s travelled away to a lyric land,
Beyond the reach of thorn, and when he returns
She’ll turn off the lights, light the candles, open the wine,
Throw back the covers, take off her dress.
It’s wise to leave her often
To have her love him more.
‘And why’ asks the pen, ‘do you write like this, out in the sun,
Waiting for music to start?
Sweet friend, well that’s what pens are for,
I’m running you down for the sake of your death,
As the cello murders the string, as the oboe murders the reed,
All for the sake of the vanishing song.
‘I’d rather be brimming with ink’ says the pen;
‘Why should I care for your words?
‘This is the deal, this is your fate, the pen must die so I give birth to words.
You’re the trooper that the Marshall throws away.
Die bravely if you can,
For words must be unearthed, the moments must be caught.’
‘Well, use me if you must; you’re no more free than me.’
Three grey donkeys roll in dust, three lemons hang on a black branch;
A sudden passage of doves, a sudden raid of swallows;
The flautist swipes at a fly; he plays with his fingers, his arms, his hands,
His legs, his feet. His hips are in dance, his spirit dissolves in the notes, he is his fingers leaping.
He is his hands, he is his legs, he is his feet, he is the music that he makes,
And he is made by music in return. So, what is the flautist without a flute?
A wandless wizard, with embarrassed hands.
Why this unquenchable thirst for wine?
Wine is the brother of blood.
Two cats creep between the chairs, another leaps from the step,
What is this music to them, so rapt in their parallel lives?
It’s common knowledge, everyone knows,
Cats love flutes, and violins.
And as for me, my wheels must spin in the dirt of the road,
This white road made of dust,
This white road packed with stone.
These are my final years, no doubt, but still my wheels must spin,
I’m raising dust as I always did, I’m spinning my wheels on the white road,
Throwing up dirt in my own eyes while shaded pigeons coo in trees
And the wasps drown, and old fools are in love once more,
And the French horn speaks to the old stone wall.
We are old fools all, falling in love at the drop of a hat, falling in love too soon,
Or falling in love too late, or failing to love at all.
Old fools suffer fools gladly; they have to put up with themselves.
The E string slips on the violin, the body rebels, the spirit belongs with those birds,
Those buzzards that mew as they lift on the wind
Above the burned-out land.
Where are my wings, O World, what have you done with my wings?
I gave you hands and a soul, so you might write of the longing for wings,
And when your hands have gone, perhaps your words remain.
There’s nothing remaining of wings, that leave no script in the sky.
Forgive me World, you’re right of course, but all the same,
I’d rather hurl out on the wind.
And who are you to question me? Where were you when I was made?
I was unassembled, that’s all, and now I’ve grown, and I’ve left your hearth,
And here I am in the wild world where E strings slip,
And wheels spin round in the white dust, and a woman’s eyes
Collide with mine, and unspecific longing grips my throat, and
Buzzards wheel, and wasps drown, and everyone waits
For wounded hearts to heal, and a cello waits in its case,
And knows it cannot sing.
‘Maestro, I’m waiting for you. When will you lift me out?
We too, we are waiting,’ the women cry,
‘We are closed in the case of this terrible fear.
‘When will you lift us out?’
In Città della Pieve the drummers drum,
The faithful sip the blood of God,
The flautist blows in the wings.
A woman touches my arm,
A woman with balm in her hands.
A cricket lands on the white page, the land is at prayer,
Forced to its knees by nostalgia for rain.
Behind the hill the clouds rise up,
Fluffed out with promise, that no-one believes.
Don’t hang your happiness on love, unless it can’t be helped,
Unless you’re made that way,
But in the end you’re used to being expelled,
You walk the fence,
You get back in by another gate,
You find the tree and eat the fruit again.
The cello waits in its case, everyone’s asking for news.
There’s music each night in the cricketsong courts.
They play each night for one who can’t be there,
They play as if he were.
Everyone’s asking, ‘When will the cellist return?’
There’s the stump of a tower on a distant hill, another atop that mound.
The guitar begins, alone with me in my room.
Heart pierced through by five swords,
It longs for better picado, more skilful hands than mine.
I’m the poor lover, between the sheets with a girl whose faery prince has gone,
Who closes her eyes and conjures him up, his mouth, his eyes, his hands.
Sweet guitar, forgive my weak embrace.
Beyond the hill the thunder growls. We fear the rain’s for someone else.
A tiny lizard skitters on flags; there’s water left in a bowl,
Weighted down with a stone.
These stones that weight you down, when will you throw them away?
You’ve carried those stones too long.
The crickets are tired of their simple song;
When will the cellist return?
The thirst of the earth flies up, it seeds the clouds with prayer,
The clouds that gather one by one.
The eyes of the sun turn blind.
The sun attempts to peel the clouds aside.
Tyrant sun, get back, you’ve ruled this land too long.
We are out in the road when the wellhead breaks, with
First one drop to raise a puff of dust, then spreads out to a stain.
Thunder roars on the far hill, lightning stutters and snaps,
Runnels and ditches are suddenly full, the
Torrent pell-mell in the run of the road.
We go to the windows, open the doors, extinguish the fans.
On roof and road the hailstones clatter and bounce.
Small blue flowers wake to life in the grass.
The cellist returns in the wake of the rain,
Maestro, maestro, it’s you.
We kept the music alive.
We played as if you were here.
His women surround him,
This battered soldier returned from wars
He never intended to fight,
Conscripted by time,
Conscripted by Fate,
Conscripted by blood,
Restored at last by love.
The music resumes.
The cello awaits him, tired as he is,
Shaken and pale, but eager to live,
Like the valley that thirsted for rain,
Like the blackbird that sang from the cypress at dawn,
Like the greening grass, and the brave blue mallow,
Returning to life in the weft of the lawn.